sabato 1 marzo 2014

Putin=Brežnev

Andrej Kolesnikov*

Quando paragonavano l’epoca di Putin con quella della stagnazione, la cosa sembrava un po’ stiracchiata. Ed effettivamente, l’epoca del ristagno deve ancora venire, adesso arriva l’epoca delle gelate come nel 1968, quando fu presa la decisione di mandare le truppe in Cecoslovacchia. Ma ogni epoca di ristagno finisce con una rivoluzione, più o meno “di velluto”. E come torna in fretta la retorica sovietica, fino al «contingente limitato di truppe». A quanto pare, il nostro governo neanche nel vocabolario sa distaccarsi dallo stile sovietico.
C’è un’altra allusione ancora che viene in mente, anche per via alfabetica: Afghanistan.
E c’è sempre un nemico esterno pronto alla bisogna: gli Stati Uniti. E i media di Stato cercano argomenti non sappiamo se più esotici o infami.

Ci sono due punti chiave.
Il primo. Le capacità razionali del presidente russo sono state sopravvalutate. È evidente che in un sistema politico personalistico il segnale lo dà una persona. E sappiamo quale. La decisione di mandare le truppe è assolutamente irrazionale. Non basterebbe neanche l’emozione a spiegarla. Si tratta di non essere all’altezza. È una sfida – nel senso letterale del termine – al mondo. È un modo per isolarsi dal mondo. Vuol dire bruciare ogni e qualsiasi ponte.
Le Olimpiadi sono finite e tutto è permesso. Anche se, naturalmente, non sono loro la causa. Putin ha preparato questa decisione coerentemente. Dal maggio 2012. O meglio, dal dicembre 2011. O meglio ancora dall’estate 1999, quando è salito al potere.

Secondo punto.
Questa decisione assurda, pericolosa, che offende il comune buon senso e il diritto internazionale, è stata presa proprio perché nel nostro paese non c’è una democrazia normale, un’opposizione normale, un parlamento normale. Non uno – dico non uno! – dei membri dell’élite ha osato votare contro. Qualcuno vigliaccamente. Altri per sincera convinzione. Nell’un caso e nell’altro i membri dell’élite sono stati condizionati dalla paura. La paura davanti a Putin. Paura di giocarsi le proprietà (a ben vedere, come fare adesso a conservare l’appartamento a Miami, proprio nella tana del probabile nemico, che prima sembrava così improbabile). L’entusiasmo di Gennadij Zjuganov era indescrivibile. Così abbiamo avuto la conferma che l’opposizione parlamentare è del tutto decorativa.

Nell’agosto del 1968 sette coraggiosi andarono sulla Piazza Rossa perché si vergognavano del regime. E dato che il regime si identificava col paese, questo sparuto gruppo di persone brucianti di vergogna per il governo, uscirono fuori per mostrare che c’era qualcuno che la pensava diverso dal Politburo. Oggi di gente che si vergogna del governo ce n’è molta di più. Qui sta la differenza principale col 1968. Lo Stato ha rotto definitivamente col paese. Il regime, impazzito per i dolori fantasma provocati dall’impero, immaginandosi che l’impero si possa ricostituire, convinto di esprimere l’opinione della maggioranza e di potersene fregare della classe colta urbana, ha compiuto un passo suicida.
Non sarà l’inizio di un nuovo impero. Sarà l’inizio della fine. La stessa fine che ci hanno fatto vedere a Kiev, e di cui Vasilij Rozanov aveva scritto un tempo: “La Rus’ se n’è andata in tre giorni”.

* Da Novaja Gazeta, 1 marzo 2014

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