Andrej Kolesnikov*
Quando
paragonavano l’epoca di Putin con quella della stagnazione, la cosa sembrava un
po’ stiracchiata. Ed effettivamente, l’epoca del ristagno deve ancora venire,
adesso arriva l’epoca delle gelate come nel 1968, quando fu presa la decisione
di mandare le truppe in Cecoslovacchia. Ma ogni epoca di ristagno finisce con
una rivoluzione, più o meno “di velluto”. E come torna in fretta la retorica
sovietica, fino al «contingente limitato di truppe». A quanto pare, il nostro
governo neanche nel vocabolario sa distaccarsi dallo stile sovietico.
C’è un’altra
allusione ancora che viene in mente, anche per via alfabetica: Afghanistan.
E c’è sempre un
nemico esterno pronto alla bisogna: gli Stati Uniti. E i media di Stato cercano
argomenti non sappiamo se più esotici o infami.
Ci sono due
punti chiave.
Il primo. Le
capacità razionali del presidente russo sono state sopravvalutate. È evidente
che in un sistema politico personalistico il segnale lo dà una persona. E
sappiamo quale. La decisione di mandare le truppe è assolutamente irrazionale.
Non basterebbe neanche l’emozione a spiegarla. Si tratta di non essere
all’altezza. È una sfida – nel senso letterale del termine – al mondo. È un
modo per isolarsi dal mondo. Vuol dire bruciare ogni e qualsiasi ponte.
Le Olimpiadi
sono finite e tutto è permesso. Anche se, naturalmente, non sono loro la causa.
Putin ha preparato questa decisione coerentemente. Dal maggio 2012. O meglio, dal dicembre 2011. O meglio ancora dall’estate 1999,
quando è salito al potere.
Secondo punto.
Questa decisione
assurda, pericolosa, che offende il comune buon senso e il diritto
internazionale, è stata presa proprio perché nel nostro paese non c’è una
democrazia normale, un’opposizione normale, un parlamento normale. Non uno – dico
non uno! – dei membri dell’élite ha
osato votare contro. Qualcuno vigliaccamente. Altri per sincera convinzione. Nell’un caso e nell’altro i membri dell’élite sono stati condizionati dalla paura. La paura davanti a
Putin. Paura di giocarsi le proprietà (a ben vedere, come fare adesso a
conservare l’appartamento a Miami, proprio nella tana del probabile nemico, che
prima sembrava così improbabile). L’entusiasmo di Gennadij Zjuganov era
indescrivibile. Così abbiamo avuto la conferma che l’opposizione parlamentare è
del tutto decorativa.
Nell’agosto del
1968 sette coraggiosi andarono sulla Piazza Rossa perché si vergognavano del
regime. E dato che il regime si identificava col paese, questo sparuto gruppo
di persone brucianti di vergogna per il governo, uscirono fuori per mostrare
che c’era qualcuno che la pensava diverso dal Politburo. Oggi di gente che si
vergogna del governo ce n’è molta di più. Qui sta la differenza principale col
1968. Lo Stato ha rotto definitivamente col paese. Il regime, impazzito per i
dolori fantasma provocati dall’impero, immaginandosi che l’impero si possa ricostituire,
convinto di esprimere l’opinione della maggioranza e di potersene fregare della
classe colta urbana, ha compiuto un passo suicida.
Non sarà
l’inizio di un nuovo impero. Sarà l’inizio della fine. La stessa fine che ci
hanno fatto vedere a Kiev, e di cui Vasilij Rozanov aveva scritto un tempo: “La
Rus’ se n’è andata in tre giorni”.
* Da Novaja Gazeta,
1 marzo 2014
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